L’odore inteso come sentimento, scintilla che fa recuperare frammenti del passato o elemento di scambio con il mondo è protagonista o elemento di tante opere letterarie che mi hanno affascinato da Madame Bovary di Gustave Flaubert,  Alla ricerca del tempo perduto di  Marcel Proust  e più recentemente la Storia naturale dei sensi di Diane Ackermann (1992). Poiché sono convinta che, come scrive  l’autrice americana "Basta sfiorare il filo teso di un profumo che i ricordi risuonano immediatamente", le essenze e gli unguenti saranno proprio il filo conduttore di questo scritto che ci porterà a vagabondare in modo disordinato nella storia. Il tentavo è quello  di offrire un piccolo spaccato degli usi e costumi nell’antichità dedicando una particolare attenzione all’olio e alle donne imprenditrici di tanti secoli fa. Ciò mi porta a sconfinare dall’ambito dei miei studi ma mi prendo questa licenza con grande voluttà.

Profumo, unguenti, donne e olio, dunque, elementi che si incontrano in quel filo sottile che abbiamo cominciato a ripercorre nel precedente articolo dove avevamo evidenziato come nell’antichità l’olio di oliva fosse utilizzato innanzitutto per l’igiene del corpo. Su 55 litri di olio, infatti, 30 erano impiegati nella cosmesi per balsami e unguenti, indispensabili per i massaggi e la cura della pelle (ferite sanguinanti, ustioni, lacerazioni ecc.).

E’ emozionante pensare come la produzione e l’uso dei profumi con l’olio d’oliva risalga con ogni probabilità al quarto millennio a.C. quando l’Egitto fece dei profumi estratti dalle essenze e lasciati a macerare in olio d’oliva un elemento cardine nella sfera della vita, della morte e della religione. Se nella Bibbia e negli inni omerici ritroviamo vari usi dell’olio di oliva noi tratteremo in particolare di quanto avveniva nella Roma antica. Plinio il Vecchio nella sua Naturalis Historia, opera monumentale in 37 libri composta nel I sec. d.C.  offre una serie di informazioni fondamentali per la fabbricazione dei profumi con l’olio di oliva e trasmette fedelmente le ricette di Pedanio Dioscoride, botanico e farmacologo di I sec. d.C.

L’autore raccomanda solo un particolare tipo di olio di oliva per la fabbricazione delle essenze profumate: l’onfacium, ottenuto dalla spremitura delle olive verdi, raccolte ancora acerbe in agosto-settembre che dava un olio limpidissimo, privo di odore e pertanto capace di assorbire gli aromi in esso disciolti.

A seconda delle fasi di raccolta si distinguevano: l’oleum viride derivante dalle olive raccolte più mature, di cui quello maggiormente pregiato era impiegato nei riti religiosi, l’oleum maturum destinato all’alimentazione, l’oleum caducum, proveniente da olive cadute a terra, considerato di seconda scelta e, infine, l’oleum cibarium che prodotto con olive appassite a terra veniva riservato all’alimentazione degli schiavi.

Non essendo ancora diffuso il processo di distillazione, da quanto apprendiamo da Plinio e Dioscoride la macerazione a caldo in olio e acqua era il metodo più utilizzato. Questo procedimento si usava soprattutto per l’estrazione del profumo da radici, foglie, muschi e parti di piante.  Gli elementi vegetali venivano posti in  giare di terracotta e coperte con una miscela composta al 50% di olio ed acqua piovana. Le giare venivano quindi  interrate fino al collo nella sabbia calda e lasciate aperte per un arco di tempo che andava da uno a cinque giorni, la temperatura era costante a circa 60° C. Gli olii essenziali rilasciati dal materiale vegetale si mescolavano con l’olio che galleggiava sopra l’acqua. Una volta che l’acqua era evaporata, l’olio profumato veniva accuratamente filtrato. Era consuetudine aggiungere anche un pizzico di sale per mantenere inalterata la natura dell’olio e resina o gomma per fissare l’aroma all’essenza.

A Roma i profumieri, riuniti in una ‘corporazione’ , il collegium aromatarium, avevano botteghe concentrate nel vicus Thuriarus e nell'attiguo vicus Ungentarius al Velabro.

Quali erano le essenze più diffuse? I dati archeologici, le fonti letterarie e più recentemente una maggiore conoscenza della flora e della botanica antica forniscono dati molto interessanti.

Da uno scavo effettuato recentemente a Pyrgos nell’isola di Cipro è stata trovata una piccola fabbrica di profumi: gli archeologi hanno riportato alla luce le brocche per l’estrazione delle essenze, gli utensili vari per la lavorazione degli aromi (macine in basalto, pestelli, bacili) e per travasare i profumi (attingitoi, imbuti ecc.) e, non ultimo, più di una decina di fosse per la macerazione di essenze. Le analisi effettuate hanno consentito di individuare nei residui organici trovati nei vasi, oltre all’olio di oliva, bergamotto, resina ed essenza di terebinto, mirto, alloro, pino, camomilla, coriandolo ecc.

A Pompei gli scavi attestano quali essenze più diffuse rose, gigli, foglie di basilico e di mirto, resine, radici e semi aromatici. Molto interessante è quanto documenta Plinio:  “Fra gli unguenti oggigiorno più diffusi, e per questo motivo creduto anche il più antico, c’è quello fatto di olio di mirto, calamo, cipresso, cipero, lentisco e corteccia di melograno … Il Telinum si fa con olio di oliva spremuto di recente, cipero, calamo, meliloto, fieno greco, miele, maro e maggiorana. Era il profumo più alla moda ai tempi del poeta comico Menandro [300 a.C. circa]” Plinio il Vecchio, Naturalis Historia (La storia Naturale), XIII-7-9.

Si tratterebbe proprio dell’essenza di cui  sulla base di quel frammento poetico citato all’inizio del nostro scritto, amava cospargersi Giulio Cesare. I profumi nella cultura romana giocavano un ruolo di fondamentale importanza: non solo se ne faceva un grande uso personale  ma erano utilizzati anche nei luoghi pubblici. Nei teatri e negli anfiteatri veniva spruzzata acqua di rose per coprire i cattivi odori, e sotto forma di incenso i profumi costituivano un elemento importante anche nella vita religiosa. Senza contare poi che una grande quantità di unguenti era utilizzata dagli atleti, in particolare i lottatori e i pancrazisti durante le competizioni e in generale dovevano scorrere litri e litri nelle sale dove si per praticavano i massaggi.

Se è davvero difficile conoscere le ricette e i reali ingredienti dei profumi nell’antichità - anche i profumieri del tempo custodivano gelosamente i loro segreti – nel caso del telino siamo fortunati in quanto Plinio e Dioscoride ce ne forniscono la composizione e le quantità dei singoli elementi. Se qualcuno avesse la tentazione di conoscere l’odore che avrebbe sentito circa 2.000 anni fa nelle strade dell’Urbe non deve far altro che cimentarsi in questa ricetta con un procedimento il più vicino possibile a quello indicato precedentemente: 100 g di onfacio, 56 g di semi di fieno greco, 11 g di rizoma di calamo, 5 g di estremità fiorite essiccate di meliloto, 2 g di foglie essiccate di erba gatta, 3 g di foglie essiccate di maggiorana, 5-10 gocce di olio essenziale di violetta o di citronella, miele.

Per i più avventurosi suggerisco invece di recarsi a Pompei dove la Dott.ssa Annamaria Ciarallo biologo direttore del Laboratorio Ricerche Applicate che da lungo tempo studia semi e resti di piante carbonizzate nell’area archeologica di Pompei , con il supporto di specialisti e ricettari antichi ha riprodotto i seguenti  unguenti: Okiminon (basilico) e Rhodinon (rosa) adottando gli stessi procedimenti delle officine pompeiane sepolte dalla celebre  eruzione del Vesuvio nel 79 d.C.  Per i più appassionati riveliamo che a Pompei nell’area di una officina e bottega vi è un giardino in cui un’equipe di botanici e archeologi hanno trovato testimonianze di una produzione di olio di oliva per la preparazione dell'omphacia  e hanno avviato una coltura sperimentale di erbe ed essenze per la riproduzione degli antichi profumi.

Ma dove veniva prodotto l’olio utilizzato a Roma? Gran parte proveniva dalle province, in particolare dalla Betica, attuale Andalusia. E’ emozionante per me e credo che lo sia anche per le tante persone che lavorano nelle attività olivicole, in particolare per tante donne che gravitano attorno a Pandolea scoprire  la presenza di donne imprenditrici coinvolte circa 2000 anni fa nella produzione e commercializzazione dell’olio.

In età imperiale lungo le rive del Guadalquivir milioni di anfore prodotte sul posto contenenti l’oro verde hanno attraversato il Mediterraneo per arrivare al porto antico di Ostia ed essere caricate sulle navi caudicarie che attraverso il Tevere  hanno raggiunto il porto fluviale di Testaccio. Lì l’olio veniva  versato nei dolia e le anfore oliare non potendo più essere riutilizzate in quanto si erano impregnate erano portate nella discarica statale, il Monte Testaccio, dove venivano distrutte. Proprio i frammenti di queste anfore e di altre che trasportavano liquidi (vino, garum ecc.) hanno dato origine alla collina artificiale di Testaccio (mons Testaceus): 35 metri di cocci (testae, in latino).

Sono scarse le fonti scritte sulla produzione e commercializzazione dell’olio dalla Betica. Alcuni anni fa è stato resa nota un’iscrizione (S. PANCIERA, Oliarii, 1980) pertinente forse ad un monumento sepolcrale, in cui sono indicate due donne imprenditrici: si tratta di una dedica di una certa Coelia Mascellina al padre e alla madre, di cui si è perso il nome che viene citata come negotiatrix olearia ex provincia baetica item vini. Dai confronto di varie iscrizioni rinvenute si può dedurre che si tratta di due donne appartenenti ad una famiglia andalusa agiata, impegnata nell’esportazione dell’olio e del vino.

A fronte della scarsità delle fonti possiamo ricavare moltissime informazioni dai dati forniti dalle iscrizioni rinvenute nei frammenti anforici conservati proprio a Testaccio. Sulle anfore, infatti, venivano apposte numerose iscrizioni che indicavano tra le altre cose la tara del contenitore,  il peso netto dell’olio e il nome delle persone che si occupavano della commercializzazione. Ebbene, sia nelle iscrizioni ad inchiostro, tituli picti,  che nei bolli impressi sulle anse, compaiono nomi femminili. Ed ecco emergere dalla polvere del tempo Placida, Felicissima, Longina, Charitosa, Agathonice… E’ difficile allo stato odierno delle ricerche risalire al ruolo preciso che rivestivano le donne citate, sia sufficiente sapere che si tratta di imprenditrici che facevano parte di ‘aziende’ a carattere familiare che affiancavano i membri maschili delle proprie famiglie operanti nelle grandi commesse statali.

La presenza di queste imprenditrici in una società patriarcale quale quella romana nella quale le donne dovevano essere poste sempre sotto la tutela di un uomo - fosse il padre, un parente o un tutore - attesta quell’evoluzione della condizione femminile che si riscontra già alla fine dell’età repubblicana. Già nel I secolo d.C. troviamo donne provenienti alla classe senatoriale o equestre rivestire un ruolo importante nella politica e negli affari e altre appartenenti a ceti medi distinguersi nel mondo dell’imprenditoria e del lavoro.  Questo processo di emancipazione ha fatto  sì che le donne fossero proprietarie di immobili come è emerso da piante marmoree rinvenute recentemente, di  fabbriche di laterizi ecc.

Dal ventre di Roma, dai tanti depositi di materiali della Città  Eterna  continuano a venire alla luce frammenti di passato, un mosaico che si comporrà nel tempo per far luce su una parte della storia ancora tutta da studiare.

Paola Suraci

Per approfondimenti sugli argomenti trattati in questo scritto suggeriamo:

S. Morretta, Donne imprenditrici nella produzione e nel commercio dell’olio betico (I-III sec d.C.), 1999;

Annamaria Ciarallo, Verde pompeiano, L'"Erma" di Bretschneider, Roma 2000; L'osservazione della natura e La flora, in AA.VV. , Homo faber. Natura, scienza e tecnica nell'antica Pompei, Electa, Milano 1999.  

E. Canterella, L'ambiguo malanno. Condizione e immagine della donna nell'antichità greca e romanaRoma, 1981

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